Tempus fugit!
Tempus fugit!
(Dum fugit umbra, simil fugit irreparabile tempus. Mentre l’ombra fugge, nessuna cosa ci appartiene, soltanto il tempo è nostro).
Tic, tac, tic, tac, tic, tac, tic, tac…
«Pausa, urge immediata ed assoluta pausa!»
«Dò, tutto bene? Ti vedo un po’ pallido.»
«Si Lù, cerco solo un attimo degoismo illogico, stacco la mia spina appesa al quotidiano identico, voglio le mie nuvole, il mio spazio libero, una tregua di due ore e niente di lunatico!.»
«Proprio ieri parlavo con Raffaella, mi diceva che non trova più il tempo per divorare un libro con la stessa voglia di un tempo. Come quando viaggiava nella metro nell’attesa di arrivare a casa, nel chiasso incessante della megalopoli, ignorava qualsiasi forma di disturbo ed immersa nella lettura ne catturava ogni colore, forma e sfumatura.»
«Mi piacerebbe ritrovare un po’ di tempo da dedicare a me.»
«Ho sentito parlare di un posto senza tempo, un posto dove senza ansia puoi contare quante volte respiri, un posto dove chi ti sta accanto non ti giudica per i troppi o i pochi battiti del cuore eseguiti in un minuto, senza giornali e giornalisti del portone accanto, pronti a condividere una foto di te senza veli. Si lo so, ti può far strano, ma fidati non è molto lontano da dove siamo adesso, basta solo chiudere gli occhi… Una sola precauzione: è necessario spegnere il telefonino e non si può parlare al conducente. Cosa dici partiamo?»
«Ti seguo!»
«Benvenuto sulla macchina del tempo. Loro sono i miei nonni, Luigi e Antonio. Artigiani del tempo, filantropi del quotidiano vivere. Impagliatori di sentimenti. Il tempo per loro era scandito dal clock, clock, il suono del ferro degli zoccoli del mulo a contatto con il sentiero che dalla Sila li portava al paese. Giorni di cammino, sole, vento, pioggia e dialoghi con i propri pensieri per condividere sentimenti di paure ed emozioni vere.
Loro sono Gilda e Virginia, le rispettive mogli. Statue del tempo. Il quotidiano era scandito dalla sveglia del gallo, le faccende di casa, i figli da accudire, gli animali da nutrire e nelle sere di solitudine, dopo aver mandato i pargoli a letto, in attesa del rientro degli uomini, unica compagnia nel silenzio delle stelle, il suono dei ferri curvi per i lavori a maglia, a volte a tempo, a volte no, con il toc toc scandito dal pendolo dell’orologio. Nulla di particolare nelle loro storie di assoluta normalità, se non che padroni del loro tempo. Ora puoi aprire gli occhi.»
Respiro… «Ti ringrazio per il fantastico viaggio, due ore di assoluto silenzio ad osservare il tempo nel tempo.»
«Felice di averti emozionato.»
« Non m importa di essere classico nel vivere, standardizzato per cui tutto è da resistere, cercavo solo un attimo degoismo illogico, staccare la mia spina dal quotidiano identico, trovare le mie nuvole, il mio spazio libero, una tregua di due ore, niente di lunatico.»
NON HO TEMPO! Ci manca il tempo. Il tempo per viaggiare, il tempo per discutere, il tempo per amare…! Non abbiamo tempo! Ma cos’è il tempo? Per Seneca il presente è lunico tempo che viviamo! E già: il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora. Perciò quello che conta è quello che ora viviamo, che quindi deve essere valorizzato, non sprecato. Gli uomini non possono lamentarsi della brevità dellesistenza se poi si rivelano spreconi e incapaci a dominare il tempo: Esigua, infatti, è quella parte di vita che gli uomini vivono davvero, tutto il resto è tempo. Una società sempre più nervosa e complessa ci sta sfilando con destrezza quello che per S. Agostino era lestensione dellanima: unestensione tra la memoria del passato, lintuizione del presente e lattesa del futuro. Parliamo del tempo, artificio umano che misura la successione degli eventi, da sempre oggetto di studi filosofici e scientifici, e che nella storia ha stimolato schiere di pensatori interessati a coglierne il senso più profondo: il tempo scorre tanto per citare un antico dilemma o la sua percezione è soggettiva, influenzata dai nostri sensi? Mi chiedo allora se gli affaccendati di cui parla Seneca, nei quali una modernità parossistica ci ha trasformato, siano ancora oggi figure biasimevoli, come riteneva il filosofo, che aggiungeva: nessuna cosa può esser ben gestita da un affaccendato poiché un animo intento a più cose nulla recepisce in profondità e il suo presente si risolve in una catena di istanti che presto svaniscono. Siamo costretti a consumare, dilapidare il tempo, tutto il tempo a nostra disposizione, in decine di impegni quotidiani, dilatati da spostamenti sempre più assidui, sempre più lenti per colpa di una comune frenesia al volante che paralizza le città, sul cui asfalto le lunghe code di automobilisti impazienti e frustrati sembrano oramai disegni indelebili. Non una pausa, un momento di riflessione, eppure le angosce, i problemi quotidiani ci sono, pesano, rendono le azioni meno fluide e coordinate e bruciano altro tempo! Il tempo che scivola via, una perenne sensazione di urgenza, sono sintomi evidenti che la nostra società è amministrata, disciplinata da un orologio universale, trasformatosi in un cronometro inflessibile che non lesina sui centesimi e che misura la nostra efficienza, rileva il nostro stress quotidiano, estromettendo dal sistema coloro che non fanno registrare buone performance. È su questi numeri che viaggia da almeno 30-40 anni questa società del benessere (quale?), del consumismo e della spazzatura. Ma non è bastato tutto questo. Perché ora si è alzata lasticella, inducendo le persone, tutte le persone, a fare di più e ancora più in fretta, pretendendo velocità folli in una corsa il cui premio al traguardo non è chiaro, tanto meno si è certi sul gradimento di esso da parte dei cittadini, operatori supini al servizio del tempo. Le lancette isteriche, segno distintivo delle metropoli, oggi scandiscono, a giri un po più moderati, le vite in perimetri urbani tradizionalmente vivibili, La frenesia dell’uomo moderno ha messo radici anche nella famiglia, oramai non più ritrovo senza tempo, angolo di rilassato confronto: ci si vede al massimo la sera per cena, meno slow di un tempo, magari uno snack in piedi come in un qualunque buffet, con la tv da terzo incomodo (ora il pc o il cellulare sul tavolo), e al mattino si riprende a correre. La fretta dell uomo si evince anche dal poco tempo oramai dedicato ai rapporti interpersonali, sostituiti con surrogati più fast come le amicizie in rete, gli incontri virtuali in chat e social network, che richiedono meno sacrificio e che possono stringersi o liquidarsi con un colpo di mouse. Molti hanno almeno due telefonini, un pc, un portatile, l’Ipad…. La tecnologia ha sposato il tempo. Insieme hanno modellato la vita delle persone: eternamente collegate, sempre on-line, ma di fatto assenti nei luoghi reali. Tutto si può fare grazie alla tecnologia: governare la casa a distanza, cercare un ristorante, chiamare in Cina, farsi visitare dal medico e perfino essere teleoperati da un grande chirurgo. Ma se d’improvviso tutto rallentasse? Se, svegliandoci al mattino, le lancette di quel maledetto orologio decidessero di adottare andature più blande? La prima colazione che dura di più, lautomobile meno rampante, le file più corte, scambi sui mercati internazionali meno convulsi, il medico più cordiale, l’amico più disponibile, la famiglia radunata a pranzo, più tempo per gli affetti, per una passione, per il proprio cane, per quel libro sul comodino E se un minuto durasse davvero 60 secondi, un’ora 60 minuti… se tutto fosse più ragionato ? Si produrrebbe di meno, ma forse a beneficio della qualità. Si consumerebbe poco, arginando linquinamento da rifiuti, per i quali necessitano sempre più discariche. Si darebbe, in generale, più importanza al dettaglio e più valore alle priorità della vita. Ci si vorrebbe più bene. Se il tempo è la vita stessa dell’uomo, a cosa serve allora consumarla tanto in fretta? Il grado di lentezza scrive Milan Kundera – è direttamente proporzionale all’intensità della memoria, il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. E una società con una memoria corta, fatta di cittadini-automi che si muovono meccanicamente ai ritmi forsennati impartiti dalla modernità non è il migliore dei mondi in cui vivere.
Franco Laratta e Luca Altomare