La tecnologia è importante, ma non potrà mai sostituire noi stessi
“Non v’è risultato più arduo, oggi, di quello di distinguersi, rendersi originali: essere, dunque, unici”.
William ha vissuto per 18 anni in Calabria, ad Amantea, una delle perle del basso tirreno cosentino. Dal 2011 vive a Roma, dove ho iniziato a frequentare la facoltà di Giurisprudenza presso la LUISS Guido Carli, ed ha conseguito il suo ultimo esame a Londra, presso la sede estiva della Georgetown University di Washington.
“Mi reputo una persona aperta al dialogo, sempre in cerca di nuove amicizie, considerando queste ultime fondamentali nella scoperta di se stessi: sono i rapporti che costruiamo con le persone a definire, con il tempo, i tratti della nostra personalità. Per citare Aristotele, l’amicizia è una grande fonte di felicità, e reputo che scoprire se stessi, attraverso gli altri, comporti un grado di soddisfazione interiore senza eguali. In una società globalizzata come quella in cui viviamo, nella quale ciascuno è irrimediabilmente portato ad imitare – spesso per effimere ragioni – uno specifico modello quasi imposto dalla collettività, è fondamentale prendere atto di un serio fenomeno di spersonalizzazione di noi stessi, il che conduce allo smarrimento, a perdere di vista i nostri obiettivi, ad un nihil che travolge ciò che siamo e ciò che facciamo.
Credo che un’altra, importante via per conoscere e conoscersi sia studiare, informarsi costantemente su ciò che accade intorno a noi, al fine di comprendere cosa di noi va conservato e cosa andrebbe cambiato, e dunque trasmettere agli altri i nostri risultati, affinché tutti possano avere l’opportunità di conoscere, essere, migliorare”.
Le parole non sono mai facili.
Una frase da cui potrebbero derivare mille domande, senza tuttavia avere la certezza di giungere ad una risposta. Le parole non sono che un modo convenzionale che utilizziamo da secoli nel tentativo di mostrare noi stessi, la nostra interiorità, in una forma esterna e sintetica. Attraverso le parole, tuttavia, esprimiamo soltanto meno della metà di ciò che siamo, di ciò che vorremmo dire o fare. A mio avviso, il linguaggio verbale si ferma dove parte il più vasto linguaggio dei segni del corpo, carico di istintività e spontaneità, l’unico forse, oggi, in grado di far percepire nella maniera più autentica ciò che l’interlocutore vuole trasmettere. Ci sarebbe molto da dire, mi limito a considerare il pericolo insito nell’utilizzo delle parole: un vocabolo al posto di un altro può cambiare tante cose, creare anche enormi fraintendimenti, specie quando si tratta di notizie su quotidiani nazionali ed esteri, per non parlare dei social network, ormai principale fonte di (dis)informazione tra i giovani, per quanto nobile possa essere lo scopo della loro creazione. Dalla mia esperienza in Inghilterra, non ho potuto fare a meno di constatare quanto la lingua inglese sia molto più efficace e diretta del nostro antico e complesso italiano, ricco (fin troppo) di espressioni eleganti, fini, ma spesso poco utili e tergiversali. Specialmente in Italia, occorrerebbe ponderare il peso di ogni parola utilizzata, in qualsiasi contesto, al fine di non ricadere in un vuoto formalismo che de facto non porti ad alcun risultato.
Riflettere è considerevolmente laborioso. Ecco perché molta gente preferisce giudicare.
Riflettere. Una delle attività umane più complesse, un’arte misteriosa che ha consentito all’uomo di distinguersi dagli altri esseri viventi. Tuttavia la riflessione comporta una ragionevole, appropriata spendita di tempo. Ed il tempo è ciò che manca alla società odierna. Siamo in continuo movimento, mossi dalle esigenze che paiono crescere sempre più, abbiamo la necessità di ottenere tanti risultati nel minor tempo possibile, in qualsiasi ambito della nostra vita. Ed il più delle volte, si compiono azioni in via del tutto irrazionali, spinti da bisogni materiali, emozioni, euforia, nel caotico mercato della vita.
Qualunque ordinamento giuridico che si rispetti ha riservato alla figura del giudice il compito di formulare un giudizio che possa dispiegare i suoi effetti tra le parti. Non credo che un qualunque cittadino possa permettersi, attraverso l’utilizzo di formule retoriche, oralmente od anche per via di un social network, di cambiare in negativo l’opinione su un’altra persona, senza adeguatamente riflettere sulle circostanze del caso concreto, che è poi compito fondamentale di qualunque giudice. Riflettere implica una seria interiore presa di coscienza dell’oggetto di cui trattasi, ed è compito che nessuno può imporre all’altro, neanche il migliore dei coach esistente sulla piazza, ma è qualcosa che deve provenire dall’interno di noi stessi.
Bastano due pokemon ed un qualunque Higuain a distrarre il mondo da ciò che purtroppo accade ogni giorno, nella realtà!
Solo una settimana fa ero per le strade di Londra, per la precisione su High Holborn, a due passi dal nostro college. Credo che tra le tante parole ascoltate dalla gente del posto, quella più ricorrente in quei giorni fosse “pokemon”. Incredibile come persino in una delle capitali europee in cui il lavoro non manca e non si ferma mai, si trovi tempo da dedicare a futili passatempi come quello inventato da poco su smartphone. Un gioco, un divertimento per molti. Un serio rischio, per me, di abbandono della realtà, di confusione tra quest’ultima e la virtualità. Come dicevo spesso ai miei colleghi inglesi, “sometimes we need to look back to go forward”: a volte bisogna guardare indietro per andare avanti. Ci sono limiti anche al progresso: non dimentichiamoci mai dell’uomo, di quel che era e di quel che sarà. La tecnologia è importante, ma non potrà mai sostituire noi stessi.
Non sono un vero amante del calcio, dico solo che mentre i “tifosi” pensano a cosa faccia dalla mattina alla sera il caro Higuain, quest’ultimo sarà su qualche yacht piuttosto che su qualche spiaggia privata a godersi le vacanze estive, noncurante di ventimila ragazzi la cui reale aspirazione è scattare una foto con lui, nel tentativo di raccogliere qualche like su Facebook!
Non c’è cosa più aberrante oggi come oggi del cercare l’unicità nei luoghi comuni.
Non v’è risultato più arduo, oggi, di quello di distinguersi, rendersi originali: essere, dunque, unici. Per citare Osho, essere unici significa contribuire con il proprio potenziale alla vita. Scoprire, dunque, il nostro essere. Ed invece, cerchiamo tutti smisuratamente un minimo comun denominatore in quelle che sono le tendenze, le attitudini dell’epoca che ci ritroviamo a vivere, dimenticandoci che altre migliaia di persona fanno esattamente la stessa cosa. Di conseguenza, chiaramente, nessuno si distingue dall’altro, nessuno è portatore di un serio contributo alla società, alla vita. Bisognerebbe, dunque, ripartire dall’uomo, dalla sua intimità più profonda, che possa rispecchiare la particolarità di ogni individuo, il che chiaramente non equivale a giungere ad un ideale egoistico di uomo, ma solidaristico, in maniera tale che la diversità sia il motore di una nuova, dinamica società portatrice di benessere.
L’eredità pesante di un papà! Mentre tutto fuori e dentro di te, parla di lui.
Ho avuto la fortuna di avere un padre esemplare, che fino all’ultimo dei suoi giorni è riuscito a trasmettere a me e mia sorella valori quali l’umiltà, l’impegno, la dedizione, il sacrificio. Mio padre era avvocato, stimato penalista del foro di Paola, apprezzato da molti suoi colleghi, giovani e non, punto di riferimento per l’AIGA (i.e. Associazione Italiana Giovani Avvocati). Egli amava la sua professione e vi si dedicava a tempo pieno, credeva nel lavoro e nell’enorme contributo che questo, anche in tempi di crisi, possa portare alla società, ma prima di tutto all’uomo stesso. Ma papà, a differenza di molti suoi colleghi dediti ad una vita di eccessi e legata ai beni materiali, era un uomo dai gusti semplici e dalle passioni più sincere, naturali, quelle che poi lo legavano così intensamente alla sua, alla nostra terra: la Calabria. Amava praticare la caccia, per le montagne circostanti, in particolar modo quella del cinghiale: un’ottima occasione per incontrare i suoi più fidati amici, passare del tempo con loro, ma anche per stare in compagnia dei suoi cani, che parevano essere più felici di lui camminando per i monti della Sila. Ma ancor prima, era un padre sempre presente, non ha mai permesso che potesse mancare qualcosa a me, mia sorella e mia madre. Ho avuto il dispiacere di passare effettivamente il miglior tempo con lui fino all’ultimo mio anno di liceo, in quanto solo dopo un anno dall’inizio dei miei corsi universitari le sue condizioni di salute si sono aggravate, portandolo a darci un ultimo saluto solo due anni fa. Una perdita incolmabile, un vuoto che lasciò profondamente il segno, per noi e per chi gli era vicino professionalmente. Eppure, un padre, specie se si tratta di lui, non scompare mai veramente. La sua presenza da allora è rimasta viva dentro di noi: papà continua a indirizzare il mio cammino, ad aiutarmi nei momenti di seria difficoltà, essendo ormai diventato un angelo custode a tutti gli effetti. Non ho mai avuto bisogno, dunque, di star male: mi è sufficiente chiudere gli occhi, o soltanto semplicemente immaginarlo, e me lo ritrovo accanto a me, dandomi una pacca sulla spalla, esattamente come faceva quando voleva essere scherzoso ed al contempo serio, rassicurandomi su tutto. Al termine del mio percorso universitario, cercherò di seguire il suo stesso percorso, sperando di poter onorare il suo nome.
Avere vent’anni ai tempi del rigurgito terrorista e fondamentalista, in un’Europa sempre più debole.
Ormai non credo sia neanche più il caso di parlare semplicemente di terrorismo. Se ne dovrà parlare, non lo metto in dubbio, ma è prima di tutto la società ad aver perso il lume della ragione. Gli attacchi terroristici hanno portato le loro più atroci conseguenze distruggendo famiglie, creando scompiglio anche in tempi che reputavamo tra i più sicuri. Eppure, basta una tessera del domino a far cadere a tappeto tutte le altre. Ed era esattamente questo l’obiettivo di ogni singolo attacco verificatosi: scatenare il caos, il panico, il disordine più totale. Renderci deboli, senza apparentemente vie d’uscita. Se prima dovevamo preoccuparci “solo” di un ideale religioso che vuole imporre i suoi dogmi a tutti i costi, ora è l’umanità intera ad aver smarrito il lume della ragione, la netta distinzione tra bene e male, giusto e sbagliato. Non è chiaramente una guerra di tutti contro tutti: in ogni attacco terroristico, vi sono – seppur non sempre ciò è comprensibile – degli obiettivi, ma l’effetto causato da tutto ciò è quello di un’Europa stretta nelle sue spalle, in cerca di soluzioni, ma in fondo così debole e frenata, incapace di dare una seria risposta a tutto ciò. Personalmente, non mi reputo in grado di prospettare una soluzione al problema, ma servono nuove idee, politiche e non, giovani in grado di far prevalere la ragione ad un mondo in cui gli istinti, il terrore prendono il sopravvento.