La crisi, i sui effetti ed il coraggio che non c’è
Fallita la diagnosi, esaurito presto l’effetto placebo delle loro rassicurazioni, evacuate le sale d’attesa degli psicoterapeuti, i due maggiori responsabili del governo hanno pensato bene di sottrarre tempo alle terapie serie da somministrare contro la malattia in corso per destinarlo alle scaramucce personali, passandosi a vicenda la bomba in predicato di scoppiare, ignorando le macerie già presenti sul suolo e visibili ad occhio nudo superati i perimetri dei Palazzi.
Con gli indici finanziari ed economici a picco, che neppure un ottimismo vestito da barzelletta ma con un’anima cupa risolleva; l’impossibilità di attivare il rewind e cancellare le dichiarazioni avventate; l’esaurimento scorte di alibi e capri espiatori, saccheggiati in passato con impudenza; questo Governo è giunto a un bivio: riformare o ristagnare.
Questo incosciente attendismo nasce proprio dalla consapevolezza che qualunque sarà la direzione imboccata, gli ostacoli sul percorso non mancheranno, e più di qualche attore ne farà le spese.
Come annunciare al Paese una stagione di tempi duri per tutti? Con quale spirito compiere scelte necessarie quanto impopolari, che presumibilmente spingeranno dalla poltrona di comando chi oserà metterle in atto?
Il Cavaliere non può: già in bilico, accelererebbe la sua morte politica. L’uomo che ha confuso la vita per un teatrino a luci rosse ed ha fatto della comicità pecoreccia e della pornografia politica i suoi cavalli di battaglia non è credibile nel ruolo drammatico di statista che mette i suoi cittadini a pane e acqua ( ad iniziare dai più ricchi). Sbianca in volto non appena afferra il copione. Non saprebbe nemmeno leggere in parlamento un discorso fatto di austerità, tagli veri, sacrifici universali. Controfigure e stuntmen, che pure sfidano il pericolo, non si presterebbero ad una sostituzione così delicata, perché la quantità di coraggio richiesta è tanta.
E allora? L’intoppo italiano sta tutto qui. Mentre gli altri capi di stato e di governo europei si sono già calati nel ruolo di chi è chiamato ad operare scelte drastiche al prezzo di una mancata rielezione offerta sull’altare dell’interesse nazionale, in Italia tutto è bloccato. Quella pantomima di qualche giorno fa con Silvio, Giulio e Gianni che fanno un conferenza stampa (di venerdì sera, a borse chiuse e nel week-end di esodo estivo per antonomasia), dimostra con chiarezza che quei tre stanno facendo melina: non sanno, non possono, non vogliono annunciare misure vere.
Per esempio una, che fu già di Padoa-Schioppa e Vincenzo Visco nello sfortunato governo Prodi, poteva essere la tracciabilità dei pagamenti, ovvero i pagamenti elettronici,il denaro contante sostituito da assegni o carte di credito. Con quel primo esperimento (durato all’incirca un anno, nel 2007) le casse dell’ erario registrarono entrate più cospicue, inesigibili in passato a causa di una disinvolta evasione fiscale incoraggiata dall’assenza di controlli rigorosi. Da lì ebbero origine i famosi “tesoretti” di circa un miliardo di tasse in più al mese. Il sistema, a regime, puntando una luce fissa sull’economia del sommerso avrebbe agito da ottimo deterrente contro il dilagare di questa onerosa piaga sociale. Ma quel governo di “polizia tributaria”, di “vampiri”, cadde, e la parte insana del popolo delle “partite Iva” e più in generale dei “neri per sempre!” portò per ritorsione la destra di Silvio nuovamente al governo. Tremonti, per onorare la cambiale con questa fetta di elettorato, come primo atto cancellò l’invadente misura che metteva le mani nelle tasche degli italiani evasori e disonesti.
Possono ora i Tretrè, Berlusconi- Tremonti- Letta, reintrodurre l’avversato provvedimento sul quale hanno fondato, traendone profitto, le campagne elettorali di questi decenni?
Un altro esempio: l’Ici su tutte le abitazioni venne eliminata dal Governo Berlusconi appena insediatosi. Un errore grave. Anche perché il precedente esecutivo aveva già esentato dal pagamento i titolari di prime case. Ora, più che di nuova Ici, stante la gravità della situazione finanziaria del Paese, occorre parlare di patrimoniale. Una bestemmia! Un sacrilegio per la destra che in Italia difende ricchi e potenti e si accanisce con le fasce medio-basse. Una parola difficile anche per la sinistra italiana, che ha paura di perdere consensi nei ceti medio-alti. Ma la patrimoniale, ossia una tassa (una tantum? Forse!) sulla ricchezza, sulle grandi proprietà, sugli ingenti patrimoni, come la si giustifica ai propri elettori?
E ancora: lotta dura alla corruzione (costa all’erario 60 miliardi all’anno), cancellazione degli enti inutili (ce ne sono a decine in Italia), drastica riduzione degli sprechi e dei privilegi che si annidano nelle istituzioni, nella politica, nelle professioni, nella burocrazia, nei manager pubblici, nella magistratura, nell’informazione e nello spettacolo, nello sport, nel sindacato, nelle fondazioni e nelle associazioni. Chi ha il coraggio di intervenire, e subito, e di applicare queste misure colpendo i troppi furbi che vivono sulle spalle dello Stato? Chi può farlo? Difficilmente si troveranno volenterosi ad un anno o forse due dalle elezioni. In compenso, si concentrano le forze sulla riforma della Costituzione… come se questa fosse la cosa più urgente, in grado di fermare il declino del Paese. La priorità successiva – escludendo la cronica decretazione ad personam e la caccia allo stigmatizzato di turno (extracomunitario, zingaro, diverso), strumentale a distrarre le masse grazie alle esalazioni di fumo prodotte che intossicano le menti – potrebbe avere per oggetto le banane e l’improcrastinabile accoglimento della direttiva europea che ne fissa i centimetri per la commerciabilità.
Tutto fuorché le grandi riforme. Quelle dopo le elezioni. Ora chi le fa? Chi le vota? Se si fosse tutti d’accordo, riforme vere si potrebbero varare in un anno di duro lavoro parlamentare. Riforme per cambiare lo Stato, snellire le istituzioni, modernizzare il Paese, abbattere la burocrazia (anche questa ci costa decine di miliardi all’anno), cancellare sprechi, malaffare, corruzione. Riforme che rappresenterebbero il più generoso e utile regalo per le generazioni future.
E invece, per issare un Paese affondato non si va oltre i palliativi. Nel migliore dei casi. Il Memento audere semper tanto caro alla destra, oggi ha l’aspetto di un meno volitivo Io speriamo che me la cavo. Osare significa cadere, galleggiare allungherà solo i tempi dell’agonia di questo governo che, barricato nelle stanze dei bottoni mentre fuori tutto cade a pezzi, resterà vittima di un harakiri culinario come nella Grande abbuffata. Ma qui gli appetiti c’entrano poco col cibo.