Duonnu Pantu l’irriverente
Tra il XVI e il XVIII secolo, la Spagna dominò lItalia meridionale esercitando unasfissiante oppressione che, specie in Calabria, lasciò molti strascichi. La storia calabrese del Seicento è quella di una regione ai margini degli avvenimenti sociali e politici più rilevanti.
Vittima di incursioni nemiche, di governanti prepotenti, di baroni opportunisti, la nostra terra conobbe pestilenze, malaria e terremoti. Spietata anche la repressione messa in atto dallInquisizione: istituto fondato per indagare e punire, mediante un apposito tribunale, i sostenitori di teorie contrarie allortodossia cattolica. Linquisizione romana, che si serviva del suo braccio secolare spagnolo, si distinse in alcune delle nostre comunità per la disumana efferatezza. Pensiamo alla strage dei Valdesi di Calabria perpetrata dalla fine di maggio al giugno del 1561. Ma anche a celebri filosofi e pensatori come Tommaso Campanella, le cui idee in conflitto con la Chiesa gli valsero dapprima lesilio in convento, a cui si aggiunsero, dopo una coraggiosa sortita in Calabria che portò alla chiusura della prestigiosa Accademia cosentina, 27 anni di prigione da scontare a Napoli. Qui concepì La città del sole (1623): linstaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di giustizia naturale.
Il rapace fiscalismo spagnolo diede il colpo di grazia alla Calabria seicentesca, acuendo la miseria, la disgregazione sociale, larretratezza. Veniva cancellato il ricordo di una terra un tempo fiorente, che tanto avrebbe faticato per risollevarsi. Economicamente, ma non solo. Domenico Ficarra ha scritto che di quel periodo è rimasto, nella coscienza popolare, latteggiamento della rassegnazione e della rivolta, della diffidenza e della speranza, sentimenti opposti eppur compresenti nellanimo dei calabresi; ed un profondo senso di sfiducia nei confronti del potere pubblico. Nelle classi dominanti è rimasto il senso del privilegio, una certa boria personale e la tendenza a considerare il potere più come fonte di vantaggi personali e familiari che di doveri nei confronti degli amministrati. In generale, è poi rimasto uno scarso senso della vita associata, la prevalenza del privato sul pubblico ed il ripiegarsi sulla famiglia, sentita come lunica realtà sociale capace di soccorrere lindividuo nel momento del bisogno.
Eppure la Calabria tra Cinque-Seicento seppe regalare all’Italia personalità come quelle di Campanella, di cui abbiamo già detto, ma anche Bernardino Telesio e il pittore Mattia Preti.
In questo breve saggio – appena esaustivo perla scarsità di fonti e la frammentarietà di notizie, tramandate spesso oralmente da padre in figlio – ho voluto riaccendere i riflettori su un personaggio distante dai circuiti classici. Colui che la letteratura ufficiale etichetterebbe come minore, la cui opera, invece, alla luce anche del difficile contesto che abbiamo sopra ricostruito, merita dignità perché audace, originale, divertente e persino sottilese si scavalca lo steccato dellapparente trivialità.
Duonnu Pantu, al secolo Domenico Piro, nacque ad Aprigliano nel 1664 (un recente studio anticipa la sua nascita al 1660) e morì a soli 35 anni. Uomo colto, appartenente ad una famiglia di notai, sacerdote anticonformista, grazie anche ad una produzione letteraria borderli – ne, è considerato il primo poeta dialettale calabrese e per molti aspetti una figura singolare nel panorama regionale e del Mezzogiorno.
Un poeta che si discosta dagli schemi della lirica aulica e che attraverso la facezia, come riporta Piromalli, libera un mondo paesano dal peso dellautorità e dai condizionamenti culturali che per oltre un secolo avevano gravato la vita cosentina, succube di una ferocissima inquisizione che colpì indistintamente preti e laici.
Anche di Duonnu Pantu non sarebbe rimasta traccia, allinfuori della lapide posta nella chiesa di S. Stefano, se tenaci studiosi e appassionati, tra mille difficoltà, non solo di carattere filologico, non lo avessero fatto rivivere. Il primo di questi, Luigi Gallucci, nel suo testo del 1833 (pressoché introvabile) prova a fornire una spiegazione al silenzio che ha avvolto per oltre un secolo la figura del sacerdote che, promosso umanamente enel suo ministero, pagò soprattutto per i suoi scritti:
«…e quantunque da suoi scritti sembrasse di una condotta depravata, dissoluta e scandalosa, pure tutti concordemente vogliono che fosse stato bene allapposto di un carattere esemplare per buon costume, continenza e religiosità».
Perché don Domenico, uomo puro e casto, affronta nelle sue composizioni temi damore e di sesso dai contenuti erotici espliciti? Luigi Gallucci, pocanzi citato, che ha studiato a lungo il fenomeno Pantu e ne ha scongiurato loblio attraverso la pubblicazione dei suoi versi, riteneva lo facesse solo per divertire gli amici, per rendere meno grevi le condizioni di vita dei giovani del tempo.
Leggendo anche un recente studio del giovane Arturo Fera di Cellara, trovo più verosimile che don Domenico Piro, in realtà, si riparasse dietro un registro trasgressivo e strumentalmente superficiale per scoperchiare la dilagante ipocrisia e i vizi privati e le pubbliche virtù dei potenti (clero compreso), derisi negli impudichi sonetti. Raccontare il sesso senza infingimenti, con un linguaggio carnale che divertiva il popolo e scandalizzava i notabili, era unarma formidabile per riappropriarsi parzialmente della libertà di espressione e critica che il sistema aveva soffocato.
Dipanare temi-tabù, resi irresistibili dal vernacolo e fonte di ilarità, era uno scaltro artificio per denunciare, limitando il rischio di ritorsioni, la dolorosa condizione di un popolo vessato e stanco dei soprusi Il sottotesto profondo individuato nelle rime di Piro non toglie smalto alle sue brillanti composizioni, che si incollano sulle bocche dei lettori anche per musicalità e brio.
Di questo avviso non doveva essere larcivescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, che conosceva ed apprezzava il sacerdote, ma si lamentava del suo esuberante rimeggiare, oggetto di reiterate censure che il religioso aggirava puntualmente, consapevole che la disubbidienza prima o poi gli sarebbe costata cara. Quel momento non tardò: il prelato, dopo lennesimo ammonimento, lo fece arrestare, salvo rilasciarlo dopo pochi giorni perché intenerito dalle preghiere e dalla bontà danimo del giovane. Atal riguardo circolaunaneddoto che mette in risalto linesauribile verve di Duonnu Pantu: dinanzi al ritardo della sua scarcerazione (pare che il vescovo avesse mal digerito il cartello SI LOCA affisso dal prete allingresso della cella), il detenuto oppose ancora una volta la sua amabile sfrontatezza.
Istruì alcuni ragazzi che gli facevano visita in cella a mandar giùuna compromettente filastrocca che avrebbero dovuto riferire al vescovo: Bonsegnù bonsegnù futtete lossa, lu vicariu allu culu e tu alla fissa: vica si nun me cacci de sta fossa, lu dicu chai imprenatu la Patissa!
Essa costituiva un chiaro ricatto: Duonnu Pantu minacciava, in caso di protratta restrizione, di raccontare a terzi dettagli sulla presunta storia tra la madre badessa e il vescovo. Questultimo, spaventato, tornò sui suoi passi e, pur rimproverandolo duramente, decise di rimandarlo ad Aprigliano, con una punizione più blanda: scrivere una lode alle beatissima Vergine Maria, che la vena pungente di don Domenico chiosò in modo personale:
E nzica chi campau la mamma bella, de cazzu nun pruvau na tanticchiella!
Anche il monsignore, cogliendo lironia mai blasfema del suo sottoposto, si concesse una risata, ma non poteva tollerare un religioso dalla penna lubrica, perciò, per arginare tanta impudicizia, gli manifestò perplessità sulla sua ordinazione sacerdotale (era ancora diacono).
Don Domenico trovò un escamotage per eludere ancora una volta gli ordini: si vestì da anziana donna cosentina e recitò una sua nuova composizione erotica (la splendida Jisti de pinnu) davanti al noto poeta napoletano Nicola Capasso, di passaggio a Cosenza, che rimase colpito da tanto estro.
Jisti de pinnu è un sonetto particolarmente riuscito, grazie anche al suo finale spiazzante:
Fore maluocchiu! Fai viersu a lu vulu.
Avantatinne, e ncricca lu mustazzu.
Ca le Muse curtiggianu a tie sulu.
E mò chi sì puetune, anzi puetazzu,
famme na rima a stu grupu de culu,
e nu suniettu a stu curmu de cazzu!
(Oscar Lucente la traduce così: Senza alcuna invidia! Fai versi improvvisando, vàntatene e rallegrati attorcigliando i baffi, giacché le muse corteggiano te solo. E adesso che sei gran poeta, anzi poetazzo, fammi una rima a questo buco di culo ed un sonetto a questo tronco di cazzo!)
Il merito di recuperare la memoria e le opere di questo eclettico poeta dialettale calabrese va ascritto negli ultimi anni al comune di Aprigliano, grazie allimpegno dellassessore alla Cultura, Giulio Le Pera, e alla presidente della Proloco, Vincenza Le Pera. Contributo prezioso quello del dirigente scolastico Oscar Lucente, che ha tradotto in italiano le opere di don Domenico per renderle accessibili a quanti non comprendono lostico dialetto apriglianese. Di recente è stato pubblicato un bel volumetto con cd audio allegato, Duonnu Pantu… senza se e senza ma, che raccoglie le poesie del sacerdote.
Don Domenico, attraverso il vernacolo, più immediato e familiare per il popolo, ha portato avanti la sua battaglia contro tutte le forme di autoritarismo, contro la violenza dellinquisizione, che aveva costretto alla fuga verso Napoli gli intellettuali cosentini, mentre altri erano finiti in carcere. La conduceva a viso aperto, servendosi della poesia, in particolare quella erotica e sensuale, che i giovani del tempo non vivevano come pornografia, ma come ludico intrattenimento ritagliato in mezzo a tanti divieti.
In una delle sue opere più riuscite, La cunneide, si trova probabilmente lessenza della sua poetica: è lamore, il rapporto carnale in tutte le sue esplicite forme, a muovere i destini del mondo. Per esso si sono fatte guerre, sono crollati regni e regimi, sono nati e finiti rapporti sociali e di potere.
Alcuni versi:
Vedove, maritate e nubili io prendo,
affamate, ricche, nobili e farabutte,
e giovincelli, vecchie, belle e brutte come un nibbio.
La nera e la brutta mi danno conforto,
la bianca e la rossa mi fanno innamorare,
e spesso mi eccita la faccia smorta.
Chine mantena la gente e le Regine?
Chine fa tanti Papi e Cardinali?
Tanti rè, mperaturi, e Uffiziali?
Cchiù ca la fregna!
I versi di Piro sono chiaramente un inno alla vita, allamore. Unapologia della non violenza e una spinta alla rivoluzione culturale.
Don Domenico pensava ai giovani, ai suoi ragazzi privati di tutto, troppo spesso vittime di angherie, della fame, e provava a trasmettere loro coraggio e speranza. Anche nei seguenti versi, che sprigionano una vitalità incredibile, si rinnova linvito allamore, a gioire e godere del piacere carnale, superando rancori e risentimenti:
Perciò fottete voi ora ragazzi scialativila ccu sti cunnarizzi
sciaquativielli vue sti cugliunazzi
e a Venere attribuite le conseguenze.
Tirate su e ungeteli questi cazzi
chiantati corna ppi tutti sti pizzi
jati gridannu ppe tuttu lu munnu
viva lu cazzu, lu culu e lu cunnu!
I componimenti poetici più celebri attribuiti a Duonnu Pantu sono: Lu murmuriale, La pruvista, La Cazzeide e La cunneide. Cè anche Fratemma dice ca un vale luoru: amara constatazione dellamiseria in cui erano costretti a vivere poeti e letterati dellepoca, bersaglio prediletto di autorità tracotanti. Don Domenico merita un posto fra i poeti di questa terra. Considerato eversivo e dissacrante, inviso agli ambienti accademici che nehanno mortificato loriginalità intrappolandolo nellaneddotica grossolana per negargli lo spessore dovuto e liquidare tutta la sua opera come gratuita scurrilità, va conosciuto e sdoganato (se ancora ce ne fosse bisogno): non tanto per esser stato il primo poeta dialettale calabrese, ma per la caparbietà con cui ha inseguito il rinnovamento, preferendo al rassicurante e ipocrita stilnovismo temi scomodi come listinto liberato, col quale infrangere gli schemi del trionfalismo spiritualista. Un uomo che ha saputo mescolare amore sacro e amore profanoe metterlo al centro della sua poetica. Solo spogliandosi dei pregiudizi, trasversali ai secoli, e rinunciando ad estrarre la patente di moralità di cui tutti sembrano essere provvisti, si può entrare nel mondo dionisiaco del poeta Pantu, uscirne immacolati e rendersi conto che dietro tanta dissolutezza cantata cè un raffinato osservatore del suo tempo e un determinato censore del malcostume. Quello vero.
Gli ancora scettici converranno per lo meno sulla sua coerenza: anche in punto di morte, Duonnu Pantu ha trovato la lucidità per rivolgersi a due amici che discutevano di donne, pronunciando le sue ultime parole: Mmiscatimicce puru a mie!
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Dobbiamo precisare che traduzione dei sonetti e di tutte le altre opere è di Giovanni Ragone. Ci scusiamo per la svista.